lunedì 17 febbraio 2014

Marciante & Atti all'Art Space in the City di Milano














M


Quando ho visto l'Ostello Bello dentro a quel vicolone che saliva su dall'hotel Carroccio non sapevo ancora si trattasse di Via Medici. Ma lì dovevo andare, me lo ero imposto prima di scendere da Londra, a vedere il posto. Ad immaginare una presentazione che forse vi avrei fatto. Avevo dei nomi in testa: “Art in Milan, Art Space in Milan, Milan Art, Space Art e Giuliano Gaia, colui che portava avanti lo spazio insieme all'unica persona connessa all'iniziativa che avessi conosciuto di persona, in un pomeriggio a Southbank su a Londra: Stefania Boiano. 
Era la vigilia dell'arrivo dell'Atti - Enrico Atti - quello di Radionebbia, il vocalist delle disco del bolognese, lo scrittore, il mio amico di avventure londinesi, e quindi il cazzone, nel senso di coglione, detto in confidenza ecco. 
Dopo averlo confuso per uno studio di design di un numero prima, c'è un angolo col puzzo di piscio, quell'angolo di via dove ogni scrittore si trova prima o poi costretto a costruire meravigliose metafore schifose sulla propria.
Ma il bianco irrompe dalla prossima vetrina. E' arrivato il pulito, o perlomeno il pulito neutrale che lancia il particolare. Un unico grande vano con spazi diversi per diversi usi. Un tavolo “workshop” al centro, circondato dalla lunga rassegna del fotodiario del Camerun dell'avventuriera Boiano. Dall'altra parte, di fronte alla larga vetrina pile di libri dal piglio artigianale. Poi all'angolo più in fondo, opposto al soppalco dove se ne sta il computer e di lato alla scala che porta giù, il semicerchio di cuscini (o sacchi) che costituiscono la platea del freak, dell'entertainer più o meno bravo. Alle spalle di quei cuscini, sta quello che alla mia immaginazione piace chiamare il “preplatea”, e cioè una scala che scende giu, nel regno dell'osservatore la cui sonda sarà nascosta tra le ginocchia piegate di chi scomodo ascolta: sale su Giuliano Gaia.
Quello che è successo è che dopo aver trovato Via Medici di ritorno dalle colonne di San Lorenzo (verso ora di cena) ho immediatamente visto la scritta in verticale sbiadita alla 60/70 dI “Ostello”. Non mi ricordo se comprendesse pure “Bello”, ma sono sicuro di aver usato l'intera formula tutto il giorno successivo con l'Atti appena giunto alla Stazione Centrale.



A


Sarà l'ostello, saranno le birre a stomaco vuoto, sarà il cielo grigio e l'aria un po' fredda e umida, ma questo scorcio di Milano effettivamente può ricordare Berlino.
Sono qui ad accompagnare il Marciante in questa visita: e come sempre, quando si esce con lui sai quando esci ma non sai quando ritorni. E nemmeno come ritorni. E soprattutto, di ricordi poco di tutto quello che succede nel mezzo. Ma va bene così: l'importante è saperlo.
Non capisco subito che è quello il posto in cui dobbiamo entrare: io me lo immaginavo una sorta di centro sociale, e invece assomiglia più ad una galleria d'arte moderna. Pur non essendo un centro sociale, ne ha in comune se non altro l'accoglienza: Dea ci accoglia con due caffè solubili.
Forse sulla carta non il massimo: ma d'altronde lì dentro non c'era ne macchinetta ne moka. E poi io e il Marciante abbiamo speso anni nelle peggiori bettole londinesi: un caffè caldo solubile servito con il sorriso sarà sempre gradito, da parte nostra.
Arriva Giuliano, e mi ricorda un po' un attore... anche se non ricordo quale. Forse ho bisogno che il caffè faccia un attimo effetto e tamponi le birre a stomaco vuoto.




M



Seduti su quei cuscini favolosi, siamo diventati subito tutti intimi. Sarà per la “cazzoneria” che contraddistingue me e l'Atti, che con quegli educati sconosciuti (Giuliano e due fantastiche ragazze supermegapositive) possiamo sembrare al meglio Gianni e Pinotto, o il Gatto e la Volpe arruffati e fumini, o al peggio, così irrimediabilmente come solo Marciante & Atti, beviamo il caffé ed io comincio a tirare dentro la mia idea di presentazione il Giuliano, un po' su quei cuscinoni da harem, come un cammelliere discute della compravendita delle donne del sultano. Beviamo il caffé preparato da loro, come un tè nel Sahara dopo grandi auspici sull'esito dell'affare. E poi mi riguardo intorno, vedo delle foto, ricordo l'altro contatto dello spazio conosciuto a Londra, ancora Boiano, le sue avventure in Africa raccontate da lei in un pubbone a sud del Tamigi. Poi penso che quel cretino dell'Atti tra tutto ha anche fatto il missionario in Etiopia, così ci facciamo una passeggiata insieme lungo quelle mura bianche contrassegnate da volti... Un po' come Pippo Baudo e Sgarbi, tanto Atti in fondo è Ferrarese come lui...




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Non posso ignorare quello che il Marciante ha appena scritto: è vero che in questa finzione stiamo utilizzando quasi un presente storico e entrambi i narratori non dovrebbero sapere quello che pensa e scrive l'altro... ma non posso passarci sopra: uso il mio bonus di onniscienza per dire che sono di Cento, ahimè in provincia di Ferrara, ma darmi del ferrarese è come dare del toscano a Guccini.
Il Marciante ha appena parlato di fare una presentazione "con delle esplosioni" e che "avrebbe degli amici che possono aiutarlo a riguardo". Mi guardo intorno senza ben capire se stiamo organizzando un attentato o tentando semplicemente un evento per vendere un numero di copie di "che si contano sulle dita di una mano di uno che le dita non le ha nemmeno tutte". Il che, avrebbe un certo legame con le detonazioni di cui sopra.
Giuliano sembra molto interessato sia a Fabrizio e al suo "America", che a me e al mio "Anche se a Londra piove". E si capisce subito che un interesse sincero e genuino, di chi davvero ha saputo conservare la curiosità del bambino anche diventato adulto. E purtroppo è una cosa rara. Quanti salottini di intellettualotti di provincia ci è toccato frequentare a me e al Marciante... e in realtà noi andavamo li solo per mangiare gratis e rimorchiare. Spesso fallendo in entrambe le cose.


Giuliano ora ci racconta di lui e dell'Art in the City. Di posti così ce ne sono a centinaia in Italia... ma quello che percepisco di diverso è la disponibilità all'ascolto, la volontà di conoscere e comprendere veramente due giovani artisti o presunti tali (presunti artisti, e anche presunti giovani) come noi o come tanti altri in quest'Italia precaria. Non c'è lo snobbismo del salottino culturale, senza pizzette, e dove le poche ragazze o sono cesse o se la tirano (e spesso entrambe), che purtroppo contraddistingue tanti spazi che diventano di pochi e per pochi.
Qui ha ragione Mimmo di Caterino, qui davvero l'arte la possono fare tutti, alla faccia dei discorsi elitari di Achille Bonito Oliva.
Continuiamo a conversare, mentre ci rechiamo in un bar vicino per un panino e una birra, ci racconta di quando Pinketts è venuto a presentare il suo libro, e di tutti gli aneddoti collegati all'evento. Giuliano è molto tranquillo, ma non sa ancora che il Marciante sa essere molto più casinaro di Pinketts. E la cosa peggiore, è che lo farebbe in maniera completamente involontaria.

giovedì 30 gennaio 2014

Orso

di Fabrizio Marciante


Parte Prima

Agosto 2028




In mezzo alla campagna di un paese sperduto nel mondo Globo, fuori dalla storia, esiste un ufficio, un edificio, un quadrato di cemento e cartongesso perso in una valle scorticata senza nome per noi, forse per qualcun'altro si, che è morto e sepolto in un cimitero dall'altra parte delle montagne, vicino ad un comune vuoto e senza più nessuno, senza storia.
Intorno all'edificio un paio di cani da pastore piuttosto giovani, portati lì in fretta in un pomeriggio insieme allo stucco nuovo, la macchina del caffè solubile, il recipiente col rubinetto dell'acqua di nuovo potabile (adesso che che non era rimasto nessuno che se la beveva), un paio di scrivanie e scaffali assemblabili di legno truciolato non più di Svezia ma del mid-west americano ritornato a produrre già da tempo, aerotrasportati a quintali a Ginevra da cui era partito un autocarro che a Milano era divenuto un furgone e che da Roma al sito era divenuto una Skoda pick-up sgangherata. Là, da sei giorni tre uomini, un sistema di ricezione satellitare, un numero di telefono fisso, 3 Blackberries d'azienda, un Pajero grigio a sette posti, un cucinino sempre americano con tutte le vettovaglie dentro: sughi pronti, pasta, confezioni familiari di caffè macinato, merendine al cioccolato pregne di conservanti (di queste quasi milioni, stipate in due cassettoni appositi), 4 confezioni da sei di birre da 33 cl, e poi infine un freezer pieno di pizze precotte e polli interi surgelati, dei polli davvero giganti, no tacchini beninteso, dei megapolli.
Degli uomini non conosciamo il nome. Son lì per prendere decisioni sul loro paese, catalogabile al 43esimo posto per PIL mondiale del pianeta Globo. Si, il loro paese 43 era un paese diverso prima che era cominciata la crisi, forse 20 anni fa da quel 2008, ma oggi era diventato strano. I comuni che non arrivavano ai diecimila abitanti erano stati chiusi per “EMIGRAZIONE”, perché i vecchi erano morti e tutte le ultime generazioni erano andate a lavorare e a procreare nei paesi Primo, Secondo, Terzo, Quarto e Quinto, quando i più coraggiosi si spingevano fino al Dodicesimo classificato. Il sud era finito. Più di duemila anni fa, e almeno 850 anni prima della caduta di Troia, Enotrio, di origine Siriana, si sarebbe stabilito in quella terra poi Calabria. Poiché fertile come quella zona della Siria chiamata “Ausonide” lui l'avrebbe ribattezzata “Ausonia”. Solo al cessare del suo regno, dicesi durato 71 anni, suo figlio Italo ne cambio il nome del tutto.
Attraverso e poi alla fine di tutte quelle ere storiche, specie per quelle degli ultimi tre secoli rivoluzionari come non mai, tutto aveva chiuso come un cinema in bancarotta con dentro quel che restava dei gadget di un'eternità ammucchiati dentro le case e vittima di magri roditori. Orde di cani randagi sono rimasti laggiù, sotto la cintura di Roma, oggi capitale storica che ha ceduto i pochi palazzi delle istituzioni a Milano, l'unico centro con un minimo di mercato rimasto.
L'ufficio suddetto se ne stava ai piedi dell'Aspromonte. Nebbioso come non mai il monte ridiveniva più selvaggio, perché bastava essere consapevoli di ciò che gli stava intorno per miglia, il nulla. Certo che era rinato il brigantaggio verso coloro che da qualche altro paese visitavano la campagna e le rovine coi loro fuoristrada rinforzati. Un viaggio del genere se lo potevano permettere soltanto i ricchi avventurieri, armati di un dispositivo satellitare in grado di rilevare degli esseri viventi nel territorio, di notte e giorno.
A sera giunta:
2. Milano dice che dobbiamo sottostare al protocollo...”
1. Ma porca miseria, stiamo o non stiamo cercando di far nascere qualcosa qua?”
2. Lassù non lo sanno però.”
1. Lassù dove? A Milano? (stufato)
2. No più su..”
1. Ah.. Ma è questo il punto no? Loro non devono sapere.. Ma non c'eri al briefing?
2. Ah certo...
Al briefing del progetto partecipavano giovani di tutto il mondo. Molti venivano da fuori, pressoché tutti godevano di una sicurezza economica tale da poter credere a quel paese dove erano nati i loro genitori. Molti ci credevano talmente tanto che non ricordavano i punti base dell'operazione. Questo nonostante ormai parlassero tutti perfettamente almeno due lingue. In questo tempo avevano un altro genere di ottusità. Ma da ricordare vi era ben poco, concetto base: la segretezza rispetto all'Unione Europea e rispetto a tutte le persone che non facessero parte dell'operazione.



Nel dopopranzo i tre uomini si facevano la loro pennichella pomeridiana, ma prima c'era il caffé insieme nella sala comune.
Nel pomeriggio del giorno prima erano arrivate delle guardie pagate per due mesi dopo quell'altro ieri in cui erano state avvistate diverse forme di vita dentro un miglio dal sito. Molti erano animali, tutta la fauna della regione montuosa, ma nessuno aveva impiegato troppo tempo a capire se c'era pure qualche uomo perso nella campagna o intento a mettere a repentaglio gli esiti dell'operazione. Per questo erano lì, a turni e a riposo in una dependance dividevano cibo e bevande coi tre uomini. Ma non si parlavano mai, o perlomeno, non ancora.
1. Dobbiamo metter su una qualche linea sto pomeriggio.
2. Quanto tempo abbiamo?
1. Beh prima che arrivi il nuovo staff. Sette giorni.
3. Il piano lo abbiamo già consegnato no?
1. Quasi, ci serve qualche linea in più. Ripeto... Qui siamo un po' a scazzo ragazzi. Non è una vacanza. Dico a te (2), questo non è uno di quei residence di scienze politiche dove rimacini la vecchia tesi cambiando le parole. Siamo nel post del post e forse e bene che ti riprendi tutte le vecchie foto che hai su facebook, quelle coi tuoi o magari un altra più vecchia con soltanto loro che hai caricato su per darti un tono vintage a tredici anni. Oggi pomeriggio voglio sentire proposte e chi non mi convince lo accompagno personalmente a Roma questo weekend. Ragazzi è una cosa seria.
2. ...






Mattina presto, Giorno 7



L'uomo (1) era andato a farsi una passeggiata, lui che aveva un piano di scorta, lui che a quel progetto ci aveva creduto. Per credere in qualcosa in un mondo globalizzato e lontano secoli da una realtà autarchica e autoreferente non si doveva soltanto rimpiangere Mussolini, ma si doveva essere costretti a capire che genere di prodotto quel dannato paese 43 potesse offrire al mercato globale. Per creare un prodotto servivano le persone (quelle anche facili da trovare), le infrastrutture, e per queste gli investimenti, quindi una necessaria resa pubblica del progetto che però doveva ancora rimanere segreto al radar europeo.
Qual'era in fondo la sua alternativa?
La creazione di alcune comuni perse in nelle campagne del sud.
Come?
Attraverso un processo di cooptazione il progetto avrebbe tirato dentro con dei “passaggi di sicurezza” alcuni giovani tra i 18 e i 25 anni. Una micro-comunità avrebbe fiorito piano piano se gli si fornivano delle basi naturali: semenze e strumenti di caccia.
Un credo?
Questo non sarebbe stato più possibile nel mondo di oggi, ma ciò che resisteva era il desiderio di esclusività, una sorta di fratellanza per la quale alcuni si sarebbero illusi di essere i più validi perché scelti dal progetto. In questo senso il progetto, nella sua segreta esecutività, sarebbe divenuto l'idolo. Ma lui era consapevole che non si poteva adorare un edificio pieno di computer. Sapeva che i giovani che avrebbero accettato l'invito lo avrebbero quasi tutti fatto convinti di andare incontro ad una vita naturale, ad una post-tecnocrazia puttana della globalizzazione, tipica del mondo che si erano voluti lasciare alle spalle.
In questo senso si doveva ritornare necessariamente alla vita contadina.
Lui sapeva che la banalità della sua alternativa di scorta ne faceva anche la più semplice, ma in questo senso tra le più naturali e quindi più realizzabili. Se avesse attecchito piano sarebbero nati i bambini e il paese avrebbe ripreso indietro il suo nome. E forse, con la nascita di più comunità si sarebbe tornati a quelle paleoguerre che non esistevano più, lontane dall'ipocrisia di un conflitto odierno fatto di attacchi sempre e solo chirurgici, capaci soltanto di far riapparire l'ombra del Fungo altrove. 
Lui invece sentiva la speranza in un nuovo regno.