lunedì 17 febbraio 2014

Marciante & Atti all'Art Space in the City di Milano














M


Quando ho visto l'Ostello Bello dentro a quel vicolone che saliva su dall'hotel Carroccio non sapevo ancora si trattasse di Via Medici. Ma lì dovevo andare, me lo ero imposto prima di scendere da Londra, a vedere il posto. Ad immaginare una presentazione che forse vi avrei fatto. Avevo dei nomi in testa: “Art in Milan, Art Space in Milan, Milan Art, Space Art e Giuliano Gaia, colui che portava avanti lo spazio insieme all'unica persona connessa all'iniziativa che avessi conosciuto di persona, in un pomeriggio a Southbank su a Londra: Stefania Boiano. 
Era la vigilia dell'arrivo dell'Atti - Enrico Atti - quello di Radionebbia, il vocalist delle disco del bolognese, lo scrittore, il mio amico di avventure londinesi, e quindi il cazzone, nel senso di coglione, detto in confidenza ecco. 
Dopo averlo confuso per uno studio di design di un numero prima, c'è un angolo col puzzo di piscio, quell'angolo di via dove ogni scrittore si trova prima o poi costretto a costruire meravigliose metafore schifose sulla propria.
Ma il bianco irrompe dalla prossima vetrina. E' arrivato il pulito, o perlomeno il pulito neutrale che lancia il particolare. Un unico grande vano con spazi diversi per diversi usi. Un tavolo “workshop” al centro, circondato dalla lunga rassegna del fotodiario del Camerun dell'avventuriera Boiano. Dall'altra parte, di fronte alla larga vetrina pile di libri dal piglio artigianale. Poi all'angolo più in fondo, opposto al soppalco dove se ne sta il computer e di lato alla scala che porta giù, il semicerchio di cuscini (o sacchi) che costituiscono la platea del freak, dell'entertainer più o meno bravo. Alle spalle di quei cuscini, sta quello che alla mia immaginazione piace chiamare il “preplatea”, e cioè una scala che scende giu, nel regno dell'osservatore la cui sonda sarà nascosta tra le ginocchia piegate di chi scomodo ascolta: sale su Giuliano Gaia.
Quello che è successo è che dopo aver trovato Via Medici di ritorno dalle colonne di San Lorenzo (verso ora di cena) ho immediatamente visto la scritta in verticale sbiadita alla 60/70 dI “Ostello”. Non mi ricordo se comprendesse pure “Bello”, ma sono sicuro di aver usato l'intera formula tutto il giorno successivo con l'Atti appena giunto alla Stazione Centrale.



A


Sarà l'ostello, saranno le birre a stomaco vuoto, sarà il cielo grigio e l'aria un po' fredda e umida, ma questo scorcio di Milano effettivamente può ricordare Berlino.
Sono qui ad accompagnare il Marciante in questa visita: e come sempre, quando si esce con lui sai quando esci ma non sai quando ritorni. E nemmeno come ritorni. E soprattutto, di ricordi poco di tutto quello che succede nel mezzo. Ma va bene così: l'importante è saperlo.
Non capisco subito che è quello il posto in cui dobbiamo entrare: io me lo immaginavo una sorta di centro sociale, e invece assomiglia più ad una galleria d'arte moderna. Pur non essendo un centro sociale, ne ha in comune se non altro l'accoglienza: Dea ci accoglia con due caffè solubili.
Forse sulla carta non il massimo: ma d'altronde lì dentro non c'era ne macchinetta ne moka. E poi io e il Marciante abbiamo speso anni nelle peggiori bettole londinesi: un caffè caldo solubile servito con il sorriso sarà sempre gradito, da parte nostra.
Arriva Giuliano, e mi ricorda un po' un attore... anche se non ricordo quale. Forse ho bisogno che il caffè faccia un attimo effetto e tamponi le birre a stomaco vuoto.




M



Seduti su quei cuscini favolosi, siamo diventati subito tutti intimi. Sarà per la “cazzoneria” che contraddistingue me e l'Atti, che con quegli educati sconosciuti (Giuliano e due fantastiche ragazze supermegapositive) possiamo sembrare al meglio Gianni e Pinotto, o il Gatto e la Volpe arruffati e fumini, o al peggio, così irrimediabilmente come solo Marciante & Atti, beviamo il caffé ed io comincio a tirare dentro la mia idea di presentazione il Giuliano, un po' su quei cuscinoni da harem, come un cammelliere discute della compravendita delle donne del sultano. Beviamo il caffé preparato da loro, come un tè nel Sahara dopo grandi auspici sull'esito dell'affare. E poi mi riguardo intorno, vedo delle foto, ricordo l'altro contatto dello spazio conosciuto a Londra, ancora Boiano, le sue avventure in Africa raccontate da lei in un pubbone a sud del Tamigi. Poi penso che quel cretino dell'Atti tra tutto ha anche fatto il missionario in Etiopia, così ci facciamo una passeggiata insieme lungo quelle mura bianche contrassegnate da volti... Un po' come Pippo Baudo e Sgarbi, tanto Atti in fondo è Ferrarese come lui...




A


Non posso ignorare quello che il Marciante ha appena scritto: è vero che in questa finzione stiamo utilizzando quasi un presente storico e entrambi i narratori non dovrebbero sapere quello che pensa e scrive l'altro... ma non posso passarci sopra: uso il mio bonus di onniscienza per dire che sono di Cento, ahimè in provincia di Ferrara, ma darmi del ferrarese è come dare del toscano a Guccini.
Il Marciante ha appena parlato di fare una presentazione "con delle esplosioni" e che "avrebbe degli amici che possono aiutarlo a riguardo". Mi guardo intorno senza ben capire se stiamo organizzando un attentato o tentando semplicemente un evento per vendere un numero di copie di "che si contano sulle dita di una mano di uno che le dita non le ha nemmeno tutte". Il che, avrebbe un certo legame con le detonazioni di cui sopra.
Giuliano sembra molto interessato sia a Fabrizio e al suo "America", che a me e al mio "Anche se a Londra piove". E si capisce subito che un interesse sincero e genuino, di chi davvero ha saputo conservare la curiosità del bambino anche diventato adulto. E purtroppo è una cosa rara. Quanti salottini di intellettualotti di provincia ci è toccato frequentare a me e al Marciante... e in realtà noi andavamo li solo per mangiare gratis e rimorchiare. Spesso fallendo in entrambe le cose.


Giuliano ora ci racconta di lui e dell'Art in the City. Di posti così ce ne sono a centinaia in Italia... ma quello che percepisco di diverso è la disponibilità all'ascolto, la volontà di conoscere e comprendere veramente due giovani artisti o presunti tali (presunti artisti, e anche presunti giovani) come noi o come tanti altri in quest'Italia precaria. Non c'è lo snobbismo del salottino culturale, senza pizzette, e dove le poche ragazze o sono cesse o se la tirano (e spesso entrambe), che purtroppo contraddistingue tanti spazi che diventano di pochi e per pochi.
Qui ha ragione Mimmo di Caterino, qui davvero l'arte la possono fare tutti, alla faccia dei discorsi elitari di Achille Bonito Oliva.
Continuiamo a conversare, mentre ci rechiamo in un bar vicino per un panino e una birra, ci racconta di quando Pinketts è venuto a presentare il suo libro, e di tutti gli aneddoti collegati all'evento. Giuliano è molto tranquillo, ma non sa ancora che il Marciante sa essere molto più casinaro di Pinketts. E la cosa peggiore, è che lo farebbe in maniera completamente involontaria.

giovedì 30 gennaio 2014

Orso

di Fabrizio Marciante


Parte Prima

Agosto 2028




In mezzo alla campagna di un paese sperduto nel mondo Globo, fuori dalla storia, esiste un ufficio, un edificio, un quadrato di cemento e cartongesso perso in una valle scorticata senza nome per noi, forse per qualcun'altro si, che è morto e sepolto in un cimitero dall'altra parte delle montagne, vicino ad un comune vuoto e senza più nessuno, senza storia.
Intorno all'edificio un paio di cani da pastore piuttosto giovani, portati lì in fretta in un pomeriggio insieme allo stucco nuovo, la macchina del caffè solubile, il recipiente col rubinetto dell'acqua di nuovo potabile (adesso che che non era rimasto nessuno che se la beveva), un paio di scrivanie e scaffali assemblabili di legno truciolato non più di Svezia ma del mid-west americano ritornato a produrre già da tempo, aerotrasportati a quintali a Ginevra da cui era partito un autocarro che a Milano era divenuto un furgone e che da Roma al sito era divenuto una Skoda pick-up sgangherata. Là, da sei giorni tre uomini, un sistema di ricezione satellitare, un numero di telefono fisso, 3 Blackberries d'azienda, un Pajero grigio a sette posti, un cucinino sempre americano con tutte le vettovaglie dentro: sughi pronti, pasta, confezioni familiari di caffè macinato, merendine al cioccolato pregne di conservanti (di queste quasi milioni, stipate in due cassettoni appositi), 4 confezioni da sei di birre da 33 cl, e poi infine un freezer pieno di pizze precotte e polli interi surgelati, dei polli davvero giganti, no tacchini beninteso, dei megapolli.
Degli uomini non conosciamo il nome. Son lì per prendere decisioni sul loro paese, catalogabile al 43esimo posto per PIL mondiale del pianeta Globo. Si, il loro paese 43 era un paese diverso prima che era cominciata la crisi, forse 20 anni fa da quel 2008, ma oggi era diventato strano. I comuni che non arrivavano ai diecimila abitanti erano stati chiusi per “EMIGRAZIONE”, perché i vecchi erano morti e tutte le ultime generazioni erano andate a lavorare e a procreare nei paesi Primo, Secondo, Terzo, Quarto e Quinto, quando i più coraggiosi si spingevano fino al Dodicesimo classificato. Il sud era finito. Più di duemila anni fa, e almeno 850 anni prima della caduta di Troia, Enotrio, di origine Siriana, si sarebbe stabilito in quella terra poi Calabria. Poiché fertile come quella zona della Siria chiamata “Ausonide” lui l'avrebbe ribattezzata “Ausonia”. Solo al cessare del suo regno, dicesi durato 71 anni, suo figlio Italo ne cambio il nome del tutto.
Attraverso e poi alla fine di tutte quelle ere storiche, specie per quelle degli ultimi tre secoli rivoluzionari come non mai, tutto aveva chiuso come un cinema in bancarotta con dentro quel che restava dei gadget di un'eternità ammucchiati dentro le case e vittima di magri roditori. Orde di cani randagi sono rimasti laggiù, sotto la cintura di Roma, oggi capitale storica che ha ceduto i pochi palazzi delle istituzioni a Milano, l'unico centro con un minimo di mercato rimasto.
L'ufficio suddetto se ne stava ai piedi dell'Aspromonte. Nebbioso come non mai il monte ridiveniva più selvaggio, perché bastava essere consapevoli di ciò che gli stava intorno per miglia, il nulla. Certo che era rinato il brigantaggio verso coloro che da qualche altro paese visitavano la campagna e le rovine coi loro fuoristrada rinforzati. Un viaggio del genere se lo potevano permettere soltanto i ricchi avventurieri, armati di un dispositivo satellitare in grado di rilevare degli esseri viventi nel territorio, di notte e giorno.
A sera giunta:
2. Milano dice che dobbiamo sottostare al protocollo...”
1. Ma porca miseria, stiamo o non stiamo cercando di far nascere qualcosa qua?”
2. Lassù non lo sanno però.”
1. Lassù dove? A Milano? (stufato)
2. No più su..”
1. Ah.. Ma è questo il punto no? Loro non devono sapere.. Ma non c'eri al briefing?
2. Ah certo...
Al briefing del progetto partecipavano giovani di tutto il mondo. Molti venivano da fuori, pressoché tutti godevano di una sicurezza economica tale da poter credere a quel paese dove erano nati i loro genitori. Molti ci credevano talmente tanto che non ricordavano i punti base dell'operazione. Questo nonostante ormai parlassero tutti perfettamente almeno due lingue. In questo tempo avevano un altro genere di ottusità. Ma da ricordare vi era ben poco, concetto base: la segretezza rispetto all'Unione Europea e rispetto a tutte le persone che non facessero parte dell'operazione.



Nel dopopranzo i tre uomini si facevano la loro pennichella pomeridiana, ma prima c'era il caffé insieme nella sala comune.
Nel pomeriggio del giorno prima erano arrivate delle guardie pagate per due mesi dopo quell'altro ieri in cui erano state avvistate diverse forme di vita dentro un miglio dal sito. Molti erano animali, tutta la fauna della regione montuosa, ma nessuno aveva impiegato troppo tempo a capire se c'era pure qualche uomo perso nella campagna o intento a mettere a repentaglio gli esiti dell'operazione. Per questo erano lì, a turni e a riposo in una dependance dividevano cibo e bevande coi tre uomini. Ma non si parlavano mai, o perlomeno, non ancora.
1. Dobbiamo metter su una qualche linea sto pomeriggio.
2. Quanto tempo abbiamo?
1. Beh prima che arrivi il nuovo staff. Sette giorni.
3. Il piano lo abbiamo già consegnato no?
1. Quasi, ci serve qualche linea in più. Ripeto... Qui siamo un po' a scazzo ragazzi. Non è una vacanza. Dico a te (2), questo non è uno di quei residence di scienze politiche dove rimacini la vecchia tesi cambiando le parole. Siamo nel post del post e forse e bene che ti riprendi tutte le vecchie foto che hai su facebook, quelle coi tuoi o magari un altra più vecchia con soltanto loro che hai caricato su per darti un tono vintage a tredici anni. Oggi pomeriggio voglio sentire proposte e chi non mi convince lo accompagno personalmente a Roma questo weekend. Ragazzi è una cosa seria.
2. ...






Mattina presto, Giorno 7



L'uomo (1) era andato a farsi una passeggiata, lui che aveva un piano di scorta, lui che a quel progetto ci aveva creduto. Per credere in qualcosa in un mondo globalizzato e lontano secoli da una realtà autarchica e autoreferente non si doveva soltanto rimpiangere Mussolini, ma si doveva essere costretti a capire che genere di prodotto quel dannato paese 43 potesse offrire al mercato globale. Per creare un prodotto servivano le persone (quelle anche facili da trovare), le infrastrutture, e per queste gli investimenti, quindi una necessaria resa pubblica del progetto che però doveva ancora rimanere segreto al radar europeo.
Qual'era in fondo la sua alternativa?
La creazione di alcune comuni perse in nelle campagne del sud.
Come?
Attraverso un processo di cooptazione il progetto avrebbe tirato dentro con dei “passaggi di sicurezza” alcuni giovani tra i 18 e i 25 anni. Una micro-comunità avrebbe fiorito piano piano se gli si fornivano delle basi naturali: semenze e strumenti di caccia.
Un credo?
Questo non sarebbe stato più possibile nel mondo di oggi, ma ciò che resisteva era il desiderio di esclusività, una sorta di fratellanza per la quale alcuni si sarebbero illusi di essere i più validi perché scelti dal progetto. In questo senso il progetto, nella sua segreta esecutività, sarebbe divenuto l'idolo. Ma lui era consapevole che non si poteva adorare un edificio pieno di computer. Sapeva che i giovani che avrebbero accettato l'invito lo avrebbero quasi tutti fatto convinti di andare incontro ad una vita naturale, ad una post-tecnocrazia puttana della globalizzazione, tipica del mondo che si erano voluti lasciare alle spalle.
In questo senso si doveva ritornare necessariamente alla vita contadina.
Lui sapeva che la banalità della sua alternativa di scorta ne faceva anche la più semplice, ma in questo senso tra le più naturali e quindi più realizzabili. Se avesse attecchito piano sarebbero nati i bambini e il paese avrebbe ripreso indietro il suo nome. E forse, con la nascita di più comunità si sarebbe tornati a quelle paleoguerre che non esistevano più, lontane dall'ipocrisia di un conflitto odierno fatto di attacchi sempre e solo chirurgici, capaci soltanto di far riapparire l'ombra del Fungo altrove. 
Lui invece sentiva la speranza in un nuovo regno.

martedì 19 novembre 2013

Il film di animazione "El Empleo" rappresenta la "disumanizzazione"

Partiamo col dire che questo video ha vinto il “Premio del Pubblico al Festival di Berlino“, raggiungendo un totale di 102 premi e diventando la storia breve argentina più premiata.
Il titolo “El Empleo“, cioè “l’impiegato” è significativo di quello che il video rappresenta.  E’, in forma di cartone animato, la “piramidalità” se così si può definire della società moderna, dove ogni uomo è al servizio di quello che gli sta subito sopra.
Ogni persona vive per servire qualcuno, anche colui che crediamo un super uomo perché tutti sono al suo servizio, alla fine altro non è che lo zerbino di qualcuno sopra di lui.
L’uomo macchina, o meglio, l’umanità macchina. Il nostro mondo sta perdendo questa umanità. Ogni uomo è occupato a servire qualcuno, nonostante la vita insegni che siamo tutti uguali, dovremmo essere tutti allo stesso livello, nessuno dovrebbe essere lo zerbino di un altro.






E’ triste questo video, straziante come nonostante l’uomo che ha tantissimi al suo servizio, apparentemente abbia tutto, sia sempre triste, mai sorride, mai è felice… eppure tutti sono li per lui… già la verità è che anche lui a sua volta è parte della macchina più complessa che forma questa piramide nella quale l’umanità si è perduta.
Chissà se chi sta in cima avrà un sorriso almeno lui o se anche lui dovrà rendere conto a qualcuno a sua volta… Per essere felici bisogna smettere di usare le persone, bisogna smettere di servirsi degli altri per raggiungere scopi che alla fine non ci rendono migliori o più felici… Le relazioni, le amicizie gli amori, l’altruismo e l’umanità ci rendono felici e ci differenziano dalle macchine.
Diversamente non siamo niente, se non ingranaggi di una macchina che non funziona neppure troppo bene.


di Rossana Corti

venerdì 11 ottobre 2013

"Anche Se a Londra Piove", il successo di Enrico Atti





Anche Se a Londra Piove” (Tempo al Libro Editore, 2012) è un libro di Enrico Atti, scrittore centese già pubblicato nella “Giovane Antologia Faentina” con il suo racconto “Sangue e Traminer”.

Quanto a questo romanzo mi piace metterlo giù come una buona presa per il culo. Ci sono delle spie, magari la copertina con la foto dai colori elettrici Anni 90 che vanno d'accordo coi pezzi Brit che piacciono tanto a Giulio, ma che, di controcorrente alla classica storiella di fuga italiana a Londra dai soliti 3 momenti narrativi “che palle”, cambia il colore del té con quello che potrebbe essere un detergente blu, del detersivo, diciamo anche un po' della pioggia acida londinese che sostituisce così bene i due soliti cuori a pennarello sulla pietra di Trafalgar Sq.
In questo senso, senza sacrificare ciò che accade, il libro è un po' un manifesto di quello che mi piacerebbe definire l “Attismo” più nero, il quale non pare andare a braccetto con le storie confezionate ad arte per nuove e vecchie generazioni di teenagers che oggi scelgono ancora Londra a Berlino, ma più alla catastrofe di un personaggio, Giulio, in cui storia italiana e scazzo giovanile (e anche buona volontà) si fondono in un perfetto soggetto intrattenitore.
Il libro, oltre che a contenere delle memorie in prima persona, scandite originalmente da una complilation “umorale” (i nomi dei capitoli), è un manuale d'uso della metropoli di chi a 19 anni lascia l'Italia dopo un amore finito male. Dalla spesa, alle lavatrici, ai coinquilini, alle donne, alle amiche delle donne, alla testa al muro a cui si alternano momenti di viva rigenerazione, il libro è un successo, e vi mette nelle condizioni di invidiare chi mai un Giulio vero lo conosca uguale a quello della storia.

Il libro è stato già presentato e continua ad essere presentato nel bolognese – ma quest'estate anche in una caldissima accoglienza Cagliaritana “letta” dal bravo Dario Cosseddu e curata dal mito Carlo Birocchi. Enrico Atti, la cui favella è quella di un ottimo conduttore radiofonico, intrattiene sfiorando i lati frastagliati della storia, della quale però non vuole concedere nessun esito.
Anche per questo dovete comprarlo.

Fabrizio Marciante



Enrico Atti in questo romanzo dà voce, anima e corpo, a Giulio. Un ragazzo di provincia come tanti che un bel giorno arriva all'apice della sopportazione e decide di scappare. Scappare dal faccia a faccia con la vita, scappare dalle responsabilità e dalla monotonia. Prende un biglietto di sola andata per Londra, la città dei sognatori, senza obbiettivi particolari. Lì scopre che le cose da cui voleva scappare lo hanno inseguito e non se ne libererà facilmente.
Il ritratto di una generazione incarnato in un unico romanzo. Semplice, scorrevole e a tratti commovente.


Francesca Marchesani



Ho letto “Anche se a Londra piove” da quasi un anno e ancora ricordo distintamente personaggi, dettagli e “canzoni” che ascoltava Giulio nel suo iPod. Il libro mi piace perché ci fa perfettamente comprendere le emozioni che prova il protagonista prima di emigrare, e le sensazioni che ha in seguito vivendo la metropoli inglese. Avendo vissuto anch'io un anno nella capitale inglese posso dire che la storia narrata rispecchia fedelmente la realtà intesa come fenomeno di giovani emigrati a Londra, e quindi, soprattutto in questi anni in cui tale fenomeno è alquanto elevato, il libro potrebbe anche essere inserito nella categoria “attualità”.

Mark Reeds



In poche parole vorrei dire che è un libro che merita, in quanto la storia è piacevole e scorrevole (anche per chi come me non è un abitué della lettura), ma soprattutto una "chicca" è l'ironia pungente di Atti che si coglie in una grande serie di battute per palati fini.
Un altro bello spunto è dato dal fatto delle "citazioni musicali" , particolarità che lo rendono un libro "diverso" e appunto per quello, curioso, che ti incolla alle pagine finchè non finisci tutta la storia.

Saverio Magri



L'ho trovata una lettura avvincente piena di riferimenti a fatti che qualunque ragazzo vive o può aver vissuto, e questo lo rende un romanzo adattissimo a un pubblico di giovani.
E' un romanzo ricco di umorismo così da non renderlo mieloso, e il fatto che sia costantemente legato alla musica, fa si che il lettore possa essere coinvolto maggiormente, ritrovandosi magari nei brani citati nel libro!
Questo romanzo lo consiglierei a chiunque sia interessato a capire come un giovane di 24 anni vive l'esperienza della ricerca di nuove opportunità in uno stato diverso dal suo incontrando difficoltà e cercando modi per superarle.
Nel libro vengono trattati svariati temi quali la droga, l'alcool, l'integrazione in una nuova società e il pregiudizio, ma anche temi come l'amore e la sessualità visti in un'ottica molto personale ma comunque decisamente aperta.

Emanuele Callegari



Anche Se A Londra Piove è un romanzo di suoni, sogni e realtà. E' quello che potrei definire un buildungsroman indie:il passaggio di Giulio dal paese emiliano alla realtà londinese con la sola compagnia di ciò che in fondo gli ha fatto desiderare questo passaggio, la musica.
L'esperienza londinese regala a Giulio molte esperienze che nel suo paese nativo non avrebbe potuto sognare, ma allo stesso tempo lo priva dell'ingenuità e delle certezze adolescenziali. Più che un viaggio, quello di Giulio a Londra è un vero e proprio allunamento, tanto è differente il mondo circostante.
Anche Se A Londra Piove altro non è che la cronaca di viaggio di questo astronauta adolescente, viaggio che avrà soprattutto l'effetto di renderlo estraneo sia a S. Stefano di Stopasso (posto da cui egli proviene) che a Londra, che si rivela essere un pugno a tutte le idealizzazioni e i sogni musicali di un giovane come un altro.  
Come diceva qualcuno: “ogni scelta è un'opportunità che ha il sapore di mille rimpianti” Giulio questo avrà tutto il tempo di scoprirlo, ma almeno col suo fido iPod con se.

Giuseppe Forte



Enrico Atti:
www.facebook.com/AttiEnrico
www.facebook.com/AncheseaLondrapiove
https://twitter.com/enricoatti




giovedì 5 settembre 2013

Un Giardino Per Esistere







Nel "Il giardino segreto" di Frances Hodgson Burnett, la decenne Mary Lennox - che non è mai stata cara a nessuno, neanche a se stessa - scopre il giardino segreto di Misselthwaite Manor, hortus conclusus dotato di un'anima propria, senziente, una sorta di Genius Loci, che desidera riavere un custode per rinascere. Ciò che la legherà al luogo, sarà il riconoscervi le sue stesse ferite: "Non è di nessuno. Nessuno lo vuole, nessuno lo cura" ( dal capitolo decimo). Specchiandosi in quella desolazione, sceglierà di agire per riportarlo alla vita e, nel farlo, guarirà se stessa.
Tutti gli esseri viventi hanno bisogno di trovare un rifugio dove nascondersi/sottrarsi alle insidie del mondo, per rinnovarsi: uno spazio magico, in cui l'invisibile può acquisire energia buona per nutrire il visibile.
E questo luogo, il proprio posto nel mondo, si definisce attraverso i legami affettivi, con individui e per transazione con luoghi e oggetti.
Nessuno può esistere senza che qualcuno e/o qualcosa lo accolga in sé. Dandogli un'identità, che solo attraverso il confronto (vedi gli studi sull'attività dei neuroni specchio) con l'esterno, con l'altro, può essere connotata.
Martin Heidegger asseriva che la cura è la struttura fondamentale dell'esistenza, da cui deriva che essere nel mondo, per l'uomo, significa prendersi cura delle cose e aver cura degli altri. Fare/dare per essere.
Il primo giardino bisognoso di cure è la nostra anima. In cui bisognerebbe costantemente ripetere Timshel- Tu Puoi, per rinfrancarla dai fallimenti e spingerla a proseguire nella quotidiana lotta contro le avversità. La via è aperta solo per chi è capace di credere e di combattere.





Viviamo in tempi interessanti... Ma "si può uscire da qualsiasi luogo se si è capaci di cambiare sogno" (da "Lo specchio nello specchio" di Michael Ende) e, immaginare un futuro di vittoria, è già ipotecarne la  possibilità evadendo dai propri limiti momentanei.
E ciò "che non è voluto difficilmente prospera" (dal capitolo quindicesimo de "Il giardino segreto").
Il secondo giardino è, senza restrizioni inattuali, un topocosmo. La Terra intera, di cui la razza umana dovrebbe essere responsabile custode.
E' questione attuale il tentativo di sviluppare un giardinaggio di riparazione, ma vi sono infiniti ostacoli per la sua attuazione internazionale, nonostante la diffusa consapevolezza dei rischi derivanti dall'inquinamento ambientale e dalla distruzione dei suoi polmoni verdi.
Esistono infatti enormi fasce di popolazione mondiale a cui è preclusa la possibilità di non nuocere all'ecosistema.
Nell'Africa Sub - Sahariana a causa del "land grabbling" ossia dell'accorpamento delle terre da parte di Stati esteri e di multinazionali (che hanno generato anche l'inferno di Agbogbloshie in Ghana, discarica a cielo aperto di rifiuti elettronici dell'Occidente), impedisce gli investimenti delle comunità e dei piccoli imprenditori agricoli (il 70% dei coltivatori è donna), che non riescono a produrre neanche il necessario per la propria sussistenza.
In America Latina ( ma la piaga si sta diffondendo anche in Europa, in Australia e in India) si dibattono tra casi di bioterrorismo - con un'esplicita accusa spiccata contro la multinazionale USA, di semenze OGM, Monsanto - veicolati dalla farfallina Helicoverpa armigera, ed epidemie fungine che falcidiano i raccolti senza che i contadini, privi di mezzi economici, possano opporvisi.
L'umanità si divide tra coloro che possono permettersi di sviluppare una vita eco-sostenibile (con tanto di abitazioni passive, interamente autosufficienti) e le moltitudini che affrontano inferni in terra e indigenza. Per gli sventurati l'alimentazione bio certificata, i giardini alimentari, etc. etc. sono soltanto lussi inarrivabili. Anche nella ricca Europa. Anche a Cagliari.
La battaglia per rendere accessibili a tutti i beni di prima necessità appare altrettanto chimerica.
E non soltanto per le azioni politiche e finanziarie di un ordine coeso di speculatori senza scrupoli che pilota il mercato e i focolai di guerra...
E' sostenibile la teoria di una trasformazione che consenta a ben oltre sei miliardi di umani e un numero imprecisato di altre forme viventi la sopravvivenza senza selezione naturale? Un solo pianeta, un solo topocosmo che non possiederà mai risorse infinite.
Ipotizzando la creazione di un iper stato internazionale che imponga la ridistribuzione dei beni, l'uso esclusivo di fonti energetiche Green, la pace universale e il benessere condiviso: come contenere natalità e fabbisogno procapite?
Colonizzando altri mondi? Ipotizzando sterilizzazioni di massa tra umani e altri animali? Eliminando individui sorteggiati?
Salvo che catastrofi naturali, epidemie, asteroidi in collisione o guerre mondiali non provvedano all'eradicazione del problema a breve...
Forse è meglio non pensare in una prospettiva di lungo periodo...
E limitarci a fare ciò che possiamo, nel nostro micro-mondo quotidiano, per contribuire alla sopravvivenza del giardino.
Chiunque può agire per "cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio" (da "Le città invisibili" di Italo Calvino), preservando almeno il giardino interiore, la capacità di restare vivi, autenticamente." 


di Rossana Corti

mercoledì 21 agosto 2013

Mimmo Di Caterino e il suo "Altro Sistema dell'Arte"

Iniziamo con un po' di lessico, neo-lessico ed anagrafe. Partiamo dall'Arte, buttiamo in mezzo “Ri-fenomeno” e infine Domenico “Mimmo” di Caterino.
Per quanto riguarda “Arte” lasciamo ai lettori più liberi di pensiero di abbandonarsi alla loro concezione di tale parola con la stessa libertà con cui il suo significato dovrebbe essere esercitato; adesso riconosciamo pacatamente nel neo-termine di Radura “Ri-fenomeno” la persona e la corrente insieme che in questa sede vuole ri-scuotere lo status quo della fruizione dell'arte oggi in Italia.
Per finire prendiamo il napoletano di nascita Mimmo di Caterino, classe 1973, e teniamo conto che è entrato ed è uscito nelle e dalle istituzioni dell'arte da una vita ormai, sin dall'Accademia di Napoli che dalla rivista “Exib Art”, e che ha fatto di tale esperienza, insieme al suo operato diretto in quanto pittore, l'humus che lo ha a portato a scrivere un “Altro Sistema dell'Arte” (Book Sprint 2012), che acquistate su http://www.booksprintedizioni.it/libro/arte/altro-sistema-dell-arte .

Riportiamo qui un passo del saggio, che potrebbe definirsi la bibbia di quello che Di Caterino non si è limitato a teorizzare, ma di quanto egli e la sua compagna portano avanti tutt'ora con la sua Tavorart Mobil (http://tavorartmobil.blogspot.co.uk/ ). L'idea è eccezionale, e poi c'è Cagliari, a cui Radura è sempre affezionata. L'automobile diventa un “non-museo mobile”. I video di tali “esibizioni” disponibili sul tubo possiedono tutta l'informalità di chi di arte fruisce e gioisce senza parti terze. Pare si sia tra amici, proprio lì dentro in macchina, e qualcuno comincia a parlare d'arte e ti mostra opere contemporanee di tutti i generi e di persone il cui nome forse non avresti mai sentito pronunciare, nell'esclusività di un momento intimo che nulla spartisce con i burocrati prezzolati che allestiscono i già vuoti musei d'Italia.
Ed è anche a costoro che consigliamo questo libro.

Di Fabrizio Marciante




ALTRO SISTEMA ANARCHICO DELL'ARTE

Un "Altro sistema dell'arte" gli artisti non possono pensare di costruirlo per decreto legge, bisogna farlo gradualmente dal basso, partendo dal ruolo dell'artista stesso nell'attuale sistema dell'arte, bisogna costruirlo dentro il guscio del vecchio e dell'Accademico, basandosi sull'interconnessione e l'autogestione tra gli artisti che sappiano partire e intercettare le pratiche popolari e i luoghi comuni delle loro esistenze.

Attraverso l'interconnessione tra gli artisti è possibile recuperare una "economia del dono del segno artistico" non basata sul calcolo dell'artista, ma sul suo rifiuto di calcolare, aprendo così la possibilità di rappresentare un sistema etico, prima che estetico, dell'estetica del rifiuto e del rifiutato.

Gli artisti, con i loro linguaggi, codici o stili, possono attraverso le pratiche connettive, autorappresentarsi come un popolo privo di uno stato che ne limiti contenuti e operazioni, in grado d'intendersi su pratiche, linguaggi e rituali comuni del fare arte contemporanea, creando in questa maniera un sistema anarchico dell'arte, che sappia fare a meno della logica del mercato, dello stato e della rappresentanza di una fede o ideologia politica.

In quanto rappresentazione immaginaria, questo "Altro sistema dell'arte" è istituzionalmente responsabile della sua esistenza e forma e anche della rivalutazione del classico e Accademico sistema dell'arte figlio diretto della rivoluzione industriale e del lavoro dell'artista intermediato da un "addetto ai lavori".

In questo tempo di trasformazione radicale è possibile inventare nuove forme sociali, politiche ed economiche,inedite nella loro gestazione connettiva e collettiva, anche per l'artista che le pratica e sperimenta.

Questo "Altro sistema dell'arte" sarà una connessione tra miriadi di comunità, reti e progetti sovrapposti e intrecciati, non sarà una conquista e neanche un cataclisma rivoluzionario, sarà un semplice processo di sviluppo attraverso la lenta creazione di nuove forme di comunicazione e organizzazione.

Tratto connettivo e comunante sarà il movimento, il corso conseguente del tempo, muoversi trasformerà un progetto di altro sistema in identità di un nuovo sistema, il movimento ossificato diverrà attraverso la memoria dei social network proprietà collettiva autoevidente.

La matrice di tutto questo? La generazione italiana dei centri sociali, quella che ha rifiutato il lavoro industriale pur difendendone i diritti, una generazione che negli anni anni novanta ha saputo anticipare tendenze che ora sono planetarie, diffuse e generalizzate, sapendo contrapporre alla finta globalizzazione delle multinazionali una reale globalizzazione dei movimenti, in grado di sfondare muri, limiti e frontiere.

Per questo possiamo definire questo secolo, il secolo dell'artista anarchico in grado di mettere sotto assedio summit Accademici e di mercato dell'arte, in grado di potere fare fronte e causa comune per il sistema dell'arte che verrà assumendosene la responsabilità.

Dal sud dell'isola, Domenico "Mimmo" Di Caterino o se preferite "Mario pisci a forasa".




lunedì 5 agosto 2013

Camerieri barra scrittori: i WRAITER


Se andate su LinkedIn, e la cercate in qualche menù a tendina, non la troverete mai. Wraiter. E’ una parola che non esiste. Trovate waiter (cameriere) oppure writer (scrittore). Quelle si, sono professioni che esistono veramente. Perlomeno, secondo LinkedIn e tutti i menù a tendina della rete. Eppure, la realtà, è un po’ diversa.

Ne parlavo l’anno scorso su Notizie-News, in un articolo poi finito su Informazione Libera e sparso per i social network: i wraiter sono ormai una realtà consolidata.
Il termine è un neologismo, che con un gioco di parole fonde le due professioni sopracitate e ne crea una terza, molto più reale e verosimile delle altre due. Il wraiter.
Il cameriere-scrittore. Quello che di giorno lavora al ristorante per pagare la stanza in cui scriverà racconti di notte.
Ne parlavano I Cani nel loro singolo Velleità, in cui anche “i nati nel ‘69 fanno i camerieri al centro e scrivono racconti”. E si parlava di wraiter anche oltreoceano, quando nel film One Day (tratto dal romanzo d’esordio di David Nicholls, portato sul grande schermo nel 2011) la protagonista Emma (Anne Hatheway), cameriera a Londra, si rivolge ad un collega chiedendo la propria barra“Qui dentro siamo tutti cameriere barra scrittore, cameriere barra attore, cameriere barra musicista… e tu? Qual è la tua barra? Benvenuto al cimitero delle ambizioni.”
In realtà, la doppia professione è tutto tranne che un cimitero: è condizione necessaria per continuare a sognare, e far si che il sogno prima o poi possa tramutarsi in realtà. E lo sanno non solo i camerieri, ma anche tutte le altre barra (pardon, arti) e professioni precarie che con la ristorazione hanno parecchio in comune, a cominciare dalla vita incerta affiancata alle ambizioni di chi accetta quei posti di lavoro.
La situazione dell’editoria italiana nel 2013 è disarmante. Le case editrici non accettano (quasi) più manoscritti, i talent scout stanno scomparendo, l’editoria a pagamento e il self publishing via ebook stanno annacquando (se non addirittura inquinando) un mercato che ormai sulla scia della “coda lunga” si avvia verso la “coda infinita”. A fronte di una decina di scrittori professionisti, ci sono decine di migliaia di signor nessuno che vendono meno di 50 copie delle loro opere. E per qualcuno di loro 50 copie restano un sogno.
Insomma, se non sei Baricco, Volo o Saviano, con la scrittura non ci campi. Tuttavia, quando sei un D’Avenia, è meglio affiancare un qualcosa di più sicuro.
I giovani d’oggi non vogliono nemmeno essere dei paragonati a questi mostri sacri delle vendite, peraltro spesso messi in discussione e criticati pesantamente (e concedetemelo: talvolta giustamente, ci si conceda un po’ di sana critica).
Nella profonda crisi culturale che ha investito il nostro Paese, ben lungi da una soluzione in tempi brevi, l’imperativo è sopravvivere ed arrangiarsi. Anche all’estero: Nicholls, in fondo, ha semplicemente fotografato una realtà che esiste da sempre, e ultimamente è diventata scelta obbligata. E non soltanto in Italia.
Oltre ai giovani in fuga con il trolley da 10 kg (i nuovi emigranti), c’è una percentuale di scrittori italiani che risiedono e lavorano all’estero, ma scrivono in lingua inglese, pubblicando nei circuiti di vendita internazionali.
La doppia professione esiste da sempre, e possiamo sempre citare il buon Chuck Palahniuk che dai suoi mestieri più disperati e disperati ha tratto l’ispirazione per le sue opere, oppure ironizzare con “Sei uno scrittore? Figo… quindi che lavoro fai?”. Quello che contraddistingue i wraiter di oggi è lo stile.
E non stiamo parlando di prosa, ognuno ha la sua (e ci mancherebbe), ma lo stile di vita. Gli scrittori di oggi devono mantenere un minimo di regolarità, organizzazione e competenze. Soprattutto competenze informatiche e di comunicazione, nel mondo dei social. Email, sito e blog sono soltanto le basi di una serie di strumenti: facebook, twitter, tumblr, instagram, e ogni altro mezzo gratuito e potenzialmente virale diventa utile per mantenere i contatti con il mondo esterno, per comunicare e farsi trovare. Così come è fondamentale imparare a gestirsi tra i turni di lavoro e le pagine di scrittura.
La moleskine e il computer portatile restano degli evergreen, ma si affiancano wi-fi libere e  iPad. Aumenta il numero di wraiter che vivono nelle metropoli, per poter avere nuove ispirazioni (per raccontare meglio la provincia di casa appena lasciata, a volte), che spesso cercano tranquillità in biblioteche e locali poco frequentati, spesso più silenziose delle loro abitazioni (mai vissuto in una casa di studenti universitari?) in una eterna ricerca della massima resa tra servizio e prezzo. Perché non dobbiamo dimenticarci che il lavoro nella ristorazione non è certo per vocazione, ma è per pagarsi da vivere.
La parte più difficile da gestire resta sempre l’equilibrio privato: è sempre dura smentire il pirandelliano “la vita o la si vive o la si scrive”. E se era difficile per Pirandello, che veniva da una famiglia agiata, figuriamoci per chi si deve destreggiare tra il taccuino delle ordinazioni e quello dei racconti.
Se non altro, impareranno a non arrendersi: sanno benissimo che quando si arriva alla frutta, c’è ancora il caffè.



di Enrico Atti